The Vegetarian Chance

So I am living without fats, without meat, without fish, but am feeling quite well this way. It always seems to me that man was not born to be a carnivore."(Albert Einstein) August 3, 1953


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Tuttofood: tartufi per tutti, “carne” vegetale e troppa plastica

I vegetali prigionieri della plastica.
Fonte: Tuttofood press

Tortuoso è il percorso del cibo visto e assaggiato nei corridoi di Tuttofood a Milano (5/9 maggio). La materia prima viaggia da un continente all’altro per foraggiare le industrie alimentari perdendo lungo la strada la sua identità di luogo, stagione e gusto. Come le auto assemblate con componenti fabbricati in diversi paesi così anche un prodotto da forno può contenere ingredienti dalle più svariate provenienze e di qualità incerte. E quanto più un prodotto è processato e ultra processato più il suo assemblaggio richiede un impegno maggiore da parte dell’ufficio acquisti che non dai «cuochi» dell’industria. Alla base c’è sempre una ricetta, ma c’è anche un risultato di gusto da ottenere e che è stato creato non tanto dalle abilità di un maestro cuciniere quanto piuttosto dalle scelte di un ufficio marketing molto attento alle esigenze di mercato. Il titolare di un’azienda bio molto presente sul mercato mi ha spiegato come la loro politica è quella di studiare a fondo le tendenze dei consumatori per elaborare prodotti, che già a priori incontreranno il favore del mercato. L’obiettivo è rischiare il meno possibile anche se a volte non è possibile. I consumatori sono volubili anche perché l’industria alimentare li ha abituati a cercare sempre la novità e farsi ipnotizzare da essa. La fedeltà a un prodotto è sempre più rara, mentre invece resiste la fedeltà a un marchio. La memoria collettiva italiana continua includere marchi degli anni ’60 passati più volte di proprietà come Star, Perugina, Saiwa, Knorr e così via, ma qui si tratta di un consumo più che altro di tipo “romantico”.
Esistono cibi, che sono a ondate più desiderabili di altri vuoi perché ritenuti esclusivi o vuoi perché il loro gusto «droga» il palato dei consumatori. Ora sembra sia il momento del tartufo. A Tuttofood si sono visti in prima fila sontuosi stand di tartufi in tutte le forme, solide, liquide e cremose.

Dal sito di Be Truffle

L’esempio più innovativo ed estremo nel settore tartufi è Be truffle, un’azienda indirizzata ai più giovani con le sue salse, tra le quale spunta persino una BBQ al tartufo da mettere sulle patatine o su hamburger. Il prezioso ed esclusivo tubero entra in un immaginario gastronomico diffuso in virtù del suo gusto riprodotto in laboratorio. Un destino simile a quello del tartufo sembra averlo il pistacchio, importato da Spagna, Turchia e paesi del Nordafrica. Ne servono ingenti quantità per produrre le creme in barattolo e nelle gelaterie il gusto «pistacchio salato», uno stratagemma per dare valore a pistacchi deboli di sapore. Sulla cresta dell’onda è ormai da tempo l’avocado, usato per lo più fresco fino a quando non è stato studiato un sistema per conservarlo surgelato pronto all’uso sotto forma di monoporzione di guacamole.
Tartufo sui primi piatti e le tartine, pistacchi a colazione su pane e brioche o nei gelati, avocado nei brunch sui toast o in ciotoline per aperitivi. Ogni cibo di moda ha un suo tempo di consumo definito identificato e promosso dal marketing alimentare. Succede poi che alcune nuove passioni ci arrivino da lontano come è il caso del bubble tea dove a una miscela di tè preconfezionata si aggiungono nel bicchiere delle palline gommose di tapioca. Sembra impossibile che questo «intruglio» possa piacere eppure ha una sua ragion d’essere come spiega un produttore di palline di tapioca al naturale di Taiwan, Sunnysyrup. «In bocca queste palline prolungano la percezione del gusto della bevanda e inoltre masticare qualcosa di gommoso trasmette piacere». La gommosità non è tutto, ovviamente, ma ci vuole anche una buona dose di zucchero come in tutte le bibite commerciali non pensate per soddisfare la sete, ma per essere consumate in quantità sempre maggiori.
La rielaborazione dei prodotti vegetali in chiave moderna si giova spesso di tradizioni culturali antiche dando luogo a risultati interessanti. È il caso del sale di bambù proposto dall’azienda coreana Insanga. fondata dal Dottor Insan, naturopata autore nel 1986 del libro Holy Medicine, best seller in Corea. Il bambù contiene antiossidanti e 55 minerali essenziali per l’organismo umano. Queste sostanze vengono rese disponibili attraverso il sale «contaminato» dal bambù attraverso un’antica procedura modernizzata. Il sale viene inserito per ben nove volte all’interno di canne di bambù poi tostate con legno di pino. Il risultato è un sale salutare, nutriente e aromatico.

Il Dottor Insan, coreano, naturopata fondatore di Insanga, che produce il sale di bambù

Tornando in Italia guadagna un suo spazio il torrone di Tentazioni e sapori di Caltanissetta, presidio Slow Food. Solo tre ingredienti, miele di Sulla, mandorle locali e pistacchio di Raffadali, gemello del più celebre Bronte. La generosa quantità di frutta secca e l’assenza dello zucchero rendono questo torrone meno dolce e più aromatico di altri dove lo zucchero è l’ingrediente dominante.
Molto in fermento è il settore delle «carni» Plant Based come d’altra parte possiamo notare tutti i giorni nei supermercati. Lo sforzo imitativo si indirizza su aspetti diversi: la consistenza, il gusto, il colore e la versatilità in cucina. Sul macinato per polpette e sughi e sulle uova istantanee punta l’azienda italiana Beamy. I suoi prodotti destinati alla grande distribuzione sono molto utili per i vegani pigri, quelli che invece di rielaborare le proprie ricette preferiscono operare per sostituzione con surrogati. Gusto e consistenza non mancano e da questo punto di vista Beamy è piuttosto convincente all’assaggio.
Più rivolte ai ristoratori che non al consumatore privato sono le aziende Novameat e Swap. La prima, spagnola, riproduce con la microforce technology «carne sfilacciata» e una sorta di petto di tacchino da affettare, si tratta di prodotti molto apprezzati dai rivenditori di sandwich. Entrambi sono già insaporiti e pronti al consumo.

Dal sito di Novameat, carne vegetale sfilacciata alla piastra

La seconda, francese, si è molto concentrata sul pollo, la carne più consumata al mondo ed erroneamente considerata salutare. Il riprodotto petto di pollo di Swap è molto simile all’originale per forma, colore e consistenza fibrosa, mentre il sapore è piuttosto neutro, ma d’altra parte anche l’originale, per lo più di allevamento, non gratifica di certo il palato. Ciò che conta sono gli aromi aggiunti e il metodo di cottura.

Il “pollo” di Swap

La novità dei filetti Swap sta anche negli ingredienti, solo sette (soia e proteine di piselli i principali), e senza metilcellulosa usata spesso come addensante e piuttosto indigesta anche se vegetale. A distribuire Swap in Italia è Mr Roots, che rappresenta otto marchi della nuova industria alimentare Plant Based.
Meno rappresentato a Tuttofood è stato il settore dei «latticini» vegetali se escludiamo le bevande sostitutive del latte, che ormai vengono prodotte anche da note aziende lattiero casearie o di bibite. Per qualità si distinguono le italiane Bjorg e The Bridge, che ha lanciato le sue creme fermentate all’avena, da apprezzare per il basso contenuto di zucchero e una consistenza cremosa equilibrata.
Per l’industria alimentare Plant Based valgono le stesse regole da osservare in genere quando si decide di consumare prodotti processati o ultraprocessati. La prima è quella di evitarli quanto più possibile dato che non sono salutari come dice sempre il dottor Franco Berrino. La seconda è comunque quella di leggere sempre l’elenco degli ingredienti, che non dev’essere lungo e non deve contenere additivi e aromi. Senza dimenticare la netta preferenza verso il biologico. Fretta e gusti alterati possono indurci a scelte vegetali errate e non salutari.


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Menu visibile solo con codice QR? Un abuso dei ristoratori

In diversi ristoranti e pizzerie si è diffusa la malsana abitudine di proporre ai clienti il proprio menu in consultazione solo usando un codice QR indicato sul tavolo. Un’ulteriore riprova che ci stiamo e ci stanno abituando ad avere il nostro piccolo mondo rinchiuso in quella piccola scatola magica elettronica. Tutto è lì: i nostri contatti, le nostre foto, i nostri libri, la nostra musica, i nostri soldi, le nostre passioni, i nostri testi scritti e parlati. Persa o distrutta quella scatoletta perdiamo tutto, perdiamo noi stessi e la nostra vita si svuota. Mia mamma a 99 anni mi chiedeva sempre cosa fosse uno smartphone: da giovane aveva affidato i suoi ricordi e la sua vita a un diario scritto a mano che ancora oggi a lei sopravvive. Ora nello smartphone ci dovrebbero stare anche i menù degli altri, dei ristoratori, che vogliono invadere quell’apparecchio così personale e intimo. Una novità davvero inaccettabile. Partiamo comunque dal fatto che trattasi di prassi illegale e penalizzante nei confronti del commensale al quale è trasferita l’incombenza di disporre di un dispositivo per leggere il menu e i prezzi dei piatti proposti. Di fatto un cliente sprovvisto di smartphone non può mangiare in un ristorante che non espone portate e relativi prezzi su un suo supporto come prevede la legge. Questa nefasta abitudine sarebbe un’eredità del periodo della pandemia Covid quando si pensava che il virus si trasmettesse attraverso oggetti inanimati. In realtà è stato più volte smentito che il virus si trasmetta attraverso il contatto con oggetti precedentemente toccati da contagiati dal virus. Altro pretesto è quello del risparmio di carta, che stranamente non riguarda le tovagliette e i tovaglioli di carta largamente usati nei ristoranti invece di quelli riutilizzabili di stoffa. Il menu e i prezzi devono essere esposti dal ristoratore su

Foto di OpenClipart-Vectors da Pixabay

un suo supporto che può essere di carta o altro materiale, su una lavagna, appeso a un muro o al limite su un suo tablet. Non è accettabile che al cliente che non voglia usare il proprio smartphone o ne sia sprovvisto sia recitato il menu a voce o venga proposto lo smartphone privato del cameriere o del proprietario. La legge su questo punto è totalmente dalla parte del consumatore come a me indicato dalla Guardia di Finanza: “Le attività di somministrazione di cibi e bevande risultano disciplinate dall’art. 180 del Regio decreto 6 maggio 1940, n. 635, recante “Approvazione del regolamento per l’esecuzione del testo unico 18 giugno 1931, n. 773, delle leggi di pubblica sicurezza” che, al comma 1, prevede che “i pubblici esercenti debbono tenere esposte nel locale dell’esercizio, in luogo visibile al pubblico, la licenza e l’autorizzazione e la tariffa dei prezzi” (all. 8)”.

A Milano il regolamento Comunale prevede: Le modalità di pubblicità dei prezzi prescelte dall’esercente debbono essere tali da rendere il prezzo chiaramente e facilmente comprensibile al pubblico. L’esercente ha la responsabilità di comunicare i prezzi al cliente che non è obbligato a possedere né a usare uno smartphone. L’imposizione del codice QR come una forma di consultazione del menu da parte del ristoratore è chiaramente un abuso e come tale inaccettabile. L’uso del codice QR può essere inteso solo come un’opzione offerta al cliente a sua esclusiva scelta. E poi dal punto di vista commerciale sono davvero sicuri i ristoratori che la scelta digitale a carico del cliente sia la migliore per promuovere la propria cucina e invogliare il commensale a ordinare più piatti? Prima di tutto il cellulare con il suo piccolo schermo non consente una visione di insieme del menu, ma solo parziale. Si legge di un piatto e ci si dimentica di quelli precedenti. Passare da una voce all’altra richiede una continua interazione con lo schermo, gesto assai poco rilassante e appetitoso. I menu sono un biglietto da visita importante di ogni trattoria, osteria o ristorante stellato. Da come è scritto, spiegato, rinnovato e impaginato si capisce moltissimo del luogo nel quale ci troviamo.

Menu per un pranzo russo del 26 maggio 1896. Dalla Collezione Mosimann

I menu hanno fatto e fanno storia. A volte sono diventati dei veri e propri cimeli. Il famoso e prestigioso chef svizzero Anton Mosimann presenta a nella sua collezione privata una raccolta incredibile di menu da tutto il mondo. Sono menu elaborati per cene speciali o menu di grandi ristoranti. L’attenzione alla grafica non è inferiore a quella dei piatti proposti. La collezione Mosimann è situata a Le Bouveret, nel campus condiviso da César Ritz Colleges Switzerland e Culinary Arts Academy Switzerland. E d’altra parte non sono tanti i turisti che portano con sé come ricordo un menu stampato in valigia? Dove va a finire la poesia di quei menu tradizionali che già nella loro esposizione grafica su carta ci trasmettono un forte senso della storia gastronomica di un locale? Ma il menu di carta non è solo tipico di antiche locande, ma può esserlo anche di quelle più nuove dove quei minuti che il cliente dedica alla scelta dei piatti sono decisivi nella sua esperienza gastronomica. Un piatto ordinato senza attenzione, senza magari chiedere un chiarimento può facilmente trasformare l’esperienza in un disastro disgustoso. Perché dunque costringere il commensale a scegliere afflitto dalla stessa ansia con la quale tutto il giorno guarda febbrilmente quel totem luminoso?


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A Tuttofood la metamorfosi della carne: da animale a vegetale

Fantasia di “carni” vegetali a Tuttofood

Tuttofood è un’enorme esibizione di cibo industriale prodotto e confezionato in tutti i modi possibili. Quindi prodotti più o meno ricchi di conservanti ed additivi, confezioni più o meno sostenibili con un utilizzo di plastica sempre molto abbondante e spesso inutile. L’orientamento generale delle aziende è sempre più quello di proporre cibo pronto uso quindi o da cucinare in fretta o da mangiare facilmente in ogni situazione. Pare che gli italiani in media non trascorrano più di un’ora al giorno in cucina ed è quindi giocoforza che mangino piatti pronti o frequentino ristoranti «da meditazione» o «da toccata e fuga». Una realtà che pone non pochi problemi di salute stante l’impossibilità di tenere sotto controllo gli ingredienti di piatti cucinati da altri. A questo anche i produttori si stanno in parte adattando riducendo la quantità degli ingredienti e rendendo le etichette più trasparenti. A questa logica non sfuggono i prodotti a base vegetale, che a volte a ragione, ma a volte no, si giovano di una nomea di salubrità rispetto ai cibi a base animale. In quest’edizione di Tuttofood la vetrina di surrogati vegetali della carne è stata davvero ampia e piuttosto interessante. L’olandese PLNTFOOD propone in versione vegetale praticamente tutte le tipologie di prodotti animali frammentati più diffusi nella cucina veloce. E per farlo usa pisello giallo, la soia, il glutine di frumento. Pollo al curry, filetti di salmone, shawarma, straccetti di manzo e naturalmente hamburger. I sapori si differenziano molto in ogni ricetta anche perché l’elenco degli ingredienti è piuttosto lungo e comprende spezie ed erbe. L’azienda francese Umiami punta invece sui «petti di pollo». Con proteine della soia, fibra di avena e una tecnologia all’avanguardia è riuscita ad ottenere una materia prima del tutto simile a quella animale per consistenza e gusto. Non per niente il titolare dello stand spiegava ai suoi interlocutori: «Non produciamo questo «pollo vegetale» per i vegani, ma piuttosto per gli onnivori che vogliono mangiare meno carne. Io mangio carne e non mangerei mai questo nostro filetto di pollo se non assomigliasse in tutto e per tutto all’originale». Tutt’altro approccio ha invece l’azienda svizzera Planted che ha scelto come suo testimonial il più prestigioso chef vegetariano d’Europa, Pietro Leemann, anch’esso svizzero e cofondatore di The Vegetarian Chance. «L’obiettivo di questi prodotti», ha spiegato Leemann, «non è tanto quello di imitare la carne quanto piuttosto di offrire a chi vuole alimentarsi a base vegetale un alimento sano, subito pronto, gustoso e che non necessita di troppo tempo per essere impiegato». I prodotti Planted si distinguono per ingredienti molto riconoscibili e semplici. La base è la classica proteina di pisello alla quale vengono aggiunti poi spezie di vario tipo a seconda della ricetta. Si richiamano a pollo, maiale e manzo, ma per Leemann sarebbe opportuno che presto non sia più così: «Questi cibi meritano di vivere di identità propria e non come imitazioni di qualcos’altro». Alla conquista dei numerosissimi amanti delle polpette si è lanciato il marchio Beamy di MartinoRossi che ha presentato con lo chef Emanuele Giorgione, vegano, consulente di cucina-benessere, un pratico impasto secco per polpette. L’aggiunta di acqua e due cucchiai d’olio lo rende ben compatto per preparare delle polpette gustose e subito pronte. Il segreto è la presenza tra gli ingredienti della metilcellulosa (E461) un addensante-agglomerante che tiene insieme legumi (non soia), farina di mais e ortaggi in polvere. La metilcellulosa invece non c’è nel preparato per ragù dove invece è stata aggiunta una fibra vegetale di psillio.
Soia o legumi, soprattutto l’economico pisello giallo, sono la base proteica di ogni imitazione vegetale della carne, che poi si giova di tecnologie sofisticate o agglomeranti/addensati per ottenere una consistenza simile alla carne. Sul mercato ci sono, però, altre ricette interessanti che usano altre materie prime quali i semi oleosi. E’ il caso dell’azienda israeliana More Foods, non presente in fiera, che propone kebab, trita o bistecche a base di semi di zucca e girasole.

Il kebab di More Foods

In fatto di somiglianza estetica e consistenza il risultato più eclatante è stato ottenuto da un’altra azienda israeliana, Redefine meat. Il segreto in questo caso a parte gli ingredienti è la stampante in 3D. Il gradimento sul mercato è stato tale che per la commercializzazione del prodotto Redefine meat si avvale della partnership con Giraudi, un’importatore di carni di lusso di Montecarlo. L’hamburger di questa azienda non però stampata in 3D si può mangiare a Milano al Mercato Centrale nella bottega di Joe Bastianich dove viene proposta con condimenti non vegani (formaggio, maionese). La bistecca e l’arrosto in 3D sono in vendita surgelati a Milano da Coccole di gusto. Il prezzo non è propriamente economico: 32 euro per 300 g. Sembra che la contrapposizione tra chi rivende carne e chi sostituti vegetali sia inesistente quando interessi economici coincidano.  Non viene meno, però, l’aspetto etico. Può un vegano eticamente coerente acquistare una «carne vegetale» da un distributore che vende per lo più carne animale vera e «pregiata»? Può mangiarla nello stesso posto dove l’offerta di carne è preponderante e dove fumi, odori e condimenti si confondono al punto di annullare ogni differenza e il valore di una scelta diversa?