The Vegetarian Chance

So I am living without fats, without meat, without fish, but am feeling quite well this way. It always seems to me that man was not born to be a carnivore."(Albert Einstein) August 3, 1953


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L’hamburger può essere vegetale. Lo dice il Parlamento Europeo

Hamburger vegetale

Il Parlamento Europeo ha respinto il 23 ottobre due emendamenti legati al marketing dei prodotti industriali vegetali, che sul mercato si stanno proponendo come sostituti di cibi a base di carne e latticini. Il primo riferito alla carne intendeva proibire l’uso di termini come burger, bistecca, salsiccia o similari per denominare prodotti alimentari interamente vegetali, il secondo riferito ai latticini si proponeva di vietare l’uso di vocaboli quali “simil-yogurt”, “sostituto del formaggio” e persino alcuni più generici come “cremoso”, che etimologicamente può essere attribuito a ogni cibo. Già oggi comunque la denominazione “latte” per bevande vegetali o “formaggio” per fermentati vegetali è vietata dal 2017 per una sentenza della Corte di Giustizia Europea.  Le motivazioni addotte in favore dei due emendamenti erano una presunta difesa dei consumatori fuorviati nei loro acquisti. Non per caso Luigi Scordamaglia, Presidente di Assocarni ha subito commentato: Una non scelta che va innanzitutto contro i consumatori. Si tratta apparentemente di una battaglia su principi di marketing come quella, per esempio, sul vino Tocai o sulla difesa del “parmigiano”. In realtà in questo caso c’è molto di più che la difesa di prodotti locali ricchi di storia e tradizione. Qui si tratta di proporre ai consumatori una svolta alimentare per preservare ambiente e salute. E per farlo è utile anche una strategia di marketing, che comunichi al pubblico che gli alimenti animali possono essere sostituiti da equivalenti vegetali. Da qui il richiamo a denominazioni familiari come “hamburger”, “bistecca”, “prosciutto”, “yogurt”. Sono suggestioni che funzionano se è vero che il consumo di questi prodotti è in costante crescita. D’altra parte è vero anche che il valore di questi prodotti è proprio quello di essere vegetali e ciò è indicato in tutti i prodotti che mutuano una denominazione carnivora e la usano per definire un prodotto vegetale. Di quest’ultimo sono indicati tutti gli ingredienti e la qualità nutrizionali. Questo non avviene in forma esauriente con le etichette di cibi di origine animale. Sappiamo ad esempio se per confezionare un salume è stato fatto uso di zucchero, sale o altri conservanti, ma non sappiamo come sono stati allevati gli animali. Il loro cibo o peggio le loro medicine arrivano a noi, che ingeriamo magari sostanze nocive senza poterlo sapere e averlo scelto. In ogni caso è interessante rilevare come i consumatori di fronte a prodotti vegetali, che richiamano nomi tradizionali non si sentano confusi. Lo testimonia un’indagine condotta nel 2019 da BEUC (The European Consumer Organization) sull’approccio del pubblico verso le nuove tipologie di cibo promosse come più sane e sostenibili.

L’indagine BEUC

Secondo quest’indagine la maggior parte dei consumatori non è preoccupata per la denominazione “burger” o “salsicce” vegetali a patto che questi prodotti siano con evidenza identificabili come vegetariani o vegani. Solo una persona su 5 (20,4%) ha espresso l’opinione che l’uso di denominazioni abitualmente usate per la carne non dovrebbe mai essere permesso per prodotti interamente vegetali. La maggior parte degli intervistati (42,4%) invece si è espressa in favore di questi nomi a condizione che i prodotti siano esplicitamente etichettati come vegetariani / vegani. E 1 su 4 (26,2%) non vi ha rilevato alcun problema. Rimane aperta la questione della carne creata in laboratorio e che ancora non è in commercio. In questo caso si tratterà di carne vera, ma non derivante da animali macellati. Bisognerà trovare una denominazione che non tragga in inganno sia onnivori che vegani, che non vorranno comunque nutrirsi di carne. Nessuna legge potrà poi intervenire sulle abitudini dei consumatori, che di fatto nel tempo attribuiscono appellativi a ciò che mangiano rendendoli di uso comune. I nomi dei cibi sono nati prima delle leggi, che intendono regolamentarli. Così oggi in Italia in ogni bar è usuale chiedere un “cappuccino con latte di soia o latte vegetale”. Eppure quella bevanda di soia che il barista mette nel cappuccino non si può chiamare latte. Nessuno potrà dare una multa al cliente o al barista perché hanno sbagliato la terminologia stabilita per legge. Col tempo la bevanda di soia, che fa schiuma, si chiamerà per abitudine latte e così magari l’arrosto di seitan “arrosto”.

Al di là delle terminologie non si può infine trascurare il tema della qualità dei cibi vegetali industriali, che imitano la carne: sostenibili perché alternativi agli allevamenti intensivi, ma quasi sempre non del tutto sani per i loro contenuti di grassi, sali, zuccheri e conservanti. I cibi processati anche vegetali non dovrebbero essere la prima scelta di un consumatore consapevole, che ha cura della propria salute. E tutto questo a prescindere dalle questioni di marketing.

 

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L’Expo degli insetti, dei coccodrilli, delle zebre e dei piatti non vegetariani

Lasciamo il grillo nei campi

Il grillo: meglio nei campi che nel nostro stomaco

Dopo aver messo a disposizione dei visitatori il panino al coccodrillo e alla zebra nel padiglione dello Zimbabwe adesso l’Expo ha sdoganato anche gli insetti edibili, che si potranno assaggiare nel padiglione del Belgio. Per assaggiare il coccodrillo si sono subito create lunghe code e forse la stessa cosa capiterà per gli insetti. L’industria alimentare si è già mobilitata per renderli appetibili come patatine e inserendoli persino in dolci e biscotti. Incontreranno il gusto dei consumatori? Forse. In entrambi i casi, però, non si tratta di risposte al tema di Expo. Gli allevamenti intensivi dei coccodrilli o delle zebre sono ovviamente inimmaginabili, quelli di insetti sembrerebbero più realistici, ma anche in questo caso c’è da considerare la sostenibilità, che dovrebbe tener conto dell’enorme mole di energia necessaria a produrli, conservarli e trasportarli. Si tratterebbe alla fine di una nuova forma di sfruttamento dell’ambiente. Ma intanto si cerca di conquistare i consumatori col gusto, con la novità, con la stravaganza. E il vegetarianismo continua ad avere poco spazio a Expo. Basta fare un giro dei ristoranti presenti nei diversi padiglioni per rendersene conto. I piatti vegetariani sono pochi e troppo dispendiosi soprattutto in paragone ai piatti di carne o pesce. Ecco alcuni esempi con qualche suggerimento. Il Brasile propone un solo piatto vegetariano a 22 euro (banane, riso, fagioli, voto 5), l’Angola non ne ha nessuno (succo di baobab, voto 8), la Corea del Sud ne ha uno al ristorante (spaghettini di patata dolce con verdure, voto 7) e uno al reparto snack (rotolini con kimchi e verdure, voto 8), l’Austria ha una polpetta di riso con funghi (voto 5), la Svizzera propone i pizzoccheri e la sua meringa (voto 8) l’Olanda propone in uno dei suoi food truck un hamburger alle alghe sostenibili (voto 7, ma caro 9,5 euro), l’Iran ha un solo piatto a basa di melanzane con salsa di sesamo (voto 8, ma caro 12 euro), la Turchia ha una buona scelta di piatti con cereali, legumi e verdure al forno (voto 9), Israele ha i falafel (voto 4) e il tabulè (voto 6), la Germania ha tre piatti vegetariani in menù da 9 a 12 euro (discrete le polpette di zucca e verdure con funghi), ma fa pagare l’acqua 4,5 euro, dal Cile solo carne e succhi di frutta esotica (cirimoia e lucuma, voto 9). Ci si può poi sempre rifugiare nei piatti italiani tipici o nella pizzeria del Biodiversity Park curata dai Alce Nero al padiglione della biodiversità, che garantisce pizza ben lievitata, ingredienti bio, piatti vegetariani in una gustosa picnic box e acqua fredda gratuita. A settembre The Vegetarian Chance proporrà una cena vegetariana nel padiglione di Identità Golose e due dibattiti a tema. Particolari in seguito.