
Vanessa Nakate, attivista ugandese, sul palco di Milano
Venerdì 1 ottobre e poi anche sabato 2 a Milano decine di migliaia di giovani hanno manifestato per la «giustizia climatica» chiedendo ai governi della Terra quella svolta che invocano già da tempo e che non sembra vicina. Basta con il «bla bla bla», vogliamo i fatti, ha tuonato Greta Thunberg che ha trovato una sua alter ego africana nella 25enne Vanessa Nakate, fondatrice due anni fa di Fridays for Future in Uganda. Questa dimensione globale delle manifestazioni di Milano è uno degli aspetti più importanti di questo risveglio delle nuove generazioni che vogliono essere protagoniste del loro futuro da subito e non da domani quando il sistema tenterà di fagocitarli nel suo ormai insostenibile vortice delle produttività e della crescita infinita. Sul palco di Milano in piazza Damiano Chiesa sono saliti insieme agli italiani anche cileni, brasiliani, africani, europei. Tutti uniti da un unico messaggio: «We are unstoppable, another world is possible» e a sorpresa anche da «El pueblo unido, jamás será vencido». Peccato che sul palco non siano saliti gli Inti Illimani, che probabilmente ancora oggi con la loro canzone sarebbero capaci di trascinare le folle. È il concetto di unità e solidarietà che traspare da quello slogan e da quella canzone ad avere ancora oggi così tanta forza che nel pronunciare quelle parole sono apparsi anche dei «pugni chiusi». D’altra parte è difficile urlare degli slogan senza accompagnarli con una gestualità. Guardandoci indietro di oltre cinquant’anni sappiamo quanto quel «popolo unito» rimase in gran parte fittizio, ma anche quanto la forza della protesta e della mobilitazione abbia potuto fare da traino alla conquista di diritti civili e sociali, mentre i temi ambientali non erano percepiti come urgenti. Allora come oggi il nemico del cambiamento è il sistema, che nel tempo ha dimostrato una forza camaleontica incredibile nell’assorbire le proteste per poi proseguire nell’applicare la ricetta dello sviluppo e della crescita come unica strada per il «bene comune».

Greta Thunberg sul palco di Milano
Lo ha spiegato bene a Milano Greta Thunberg: «La lotta al cambiamento climatico richiede tutta la nostra capacità di innovazione, cooperazione e determinazione per realizzare quei cambiamenti di cui il pianeta ha bisogno. Con fatti e non solo parole, tutti insieme ce la faremo. Le parole “cambiamento climatico”, a voi cosa evocano? A me fanno pensare “posti di lavoro”, di lavoro green, molto green. Occorre trovare una transizione morbida verso un’economia a emissioni ridotte. Non abbiamo un pianeta B. Non abbiamo un pianeta bla – bla bla bla, bla bla bla… Non parliamo di un costoso gesticolare di correttezza politica green e accarezza-cuccioli o bla bla bla… Ripartiamo col Recovery bla bla bla…Economia green bla bla bla…Zero netto al 2050 bla bla bla… Zero netto bla bla bla…Impatto zero bla bla bla…Sono queste le cose che sentiamo dalle bocche dei nostri presunti “leader”. Parole, tante parole, tutte ad effetto, ma che finora hanno portato a zero fatti. Annegano i nostri sogni e speranze nel loro oceano di parole e promesse vuote. Certo, occorre ingaggiare un dialogo, ma siamo ormai a trent’anni di bla bla bla,e a cosa è servito? Oltre il 50% della CO2 in atmosfera è stata rilasciate dal 1990 ad oggi. Dal 2005 ad oggi addirittura il 33%. E mentre avveniva, i media ci riportano solo quel che i leader dicono che faranno, anziché cosa realmente stanno facendo. E poi nessuno gliene chiede comunque mai conto di quello che fanno, o meglio: non fanno».
C’è un’urgenza ha ribadito poi Greta: «La speranza non è stare a guardare. La speranza non è bla bla bla. La speranza è dire la verità. La speranza è agire di conseguenza. E la speranza viene sempre dalle persone comuni. E noi, noi persone, vogliamo un futuro salvo, vogliamo vere azioni a salvaguardia del clima, e vogliamo giustizia climatica. Mi avete sentita? Cosa vogliamo? GIUSTIZIA CLIMATICA! Quando la vogliamo? ORA! I nostri “leader” dicono volentieri “ce la possiamo fare”. Ma lo dicono per finta, mentre noi lo diciamo sul serio. Noi possiamo farcela. Ne sono straconvinta. E parte dalle persone. Parte dal confronto con la realtà, per quanto possa essere doloroso. Parte con azioni vere, e parte ora e qui. Ancora: Cosa vogliamo? GIUSTIZIA CLIMATICA! Quando la vogliamo? ORA!».
Greta da un lato fa appello alle persone, dall’altro si appella ai governi che hanno in mano gli strumenti per cambiare le politiche. Come si può arrivare a un’inversione di rotta? Partendo dal basso o dall’alto o più facilmente da una combinazione di entrambi? Pretendere «la rivoluzione» dagli stessi responsabili del danno può sembrare un paradosso, ma invocare una «rivoluzione proletaria» di marxiana memoria non ha più senso. E non perché non esistano enormi disparità sociali o lavoratori e popoli sfruttati, ma perché esiste ormai la consapevolezza che lo sfruttamento non è più solo delle donne, degli uomini e dei bambini, ma lo è anche massivamente degli animali, delle piante, del suolo, del sottosuolo, delle acque. La corsa all’accaparramento di risorse umane e naturali sembra inarrestabile. Eppure sappiamo che le risorse del nostro Pianeta sono «finite» e non «infinite» come erroneamente il sistema capitalistico lascia intendere. L’emergenza climatica, che colpisce più violentemente i paesi più deboli economicamente, è avvertita anche in Europa, negli Usa, in Australia. I possessori delle ricchezze e gli sfruttatori delle risorse stanno comprendendo che il loro benessere non è destinato a durare in eterno. E allora tutti si riempiono la bocca di sostenibilità, di «bla, bla, bla» pensando di poter rimandare quanto più possibile il problema. Proprio della contrapposizione tra realtà vera e rappresentata parla il film presentato in questi giorni a Cinemambiente Animal di Cyril Dion che racconta il viaggio di due giovani attivisti, i sedicenni Bella Lack, londinese, e Vipulan Puvaneswaran, parigino, in giro per il mondo per vedere da vicino la realtà per la quale stanno lottando. Entrambi vegani e ambientalisti si muovono con curiosità e spirito critico tra allevamenti di conigli in Francia e «giacimenti» di plastica in India.

Bella Lack, londinese, e Vipulan Puvaneswaran, parigino in Africa (in alto) e in India su una spiaggia di plastica (sopra).
Si rendono conto che la sesta estinzione di massa è già in corso e che gli insediamenti umani sono delle bolle che creano l’illusione di poter vivere separati dalla natura. Quelli che sono chiamati «consumatori», ma sono in realtà «cittadini», «persone» hanno una grande forza. Possono orientare la produzione di cibo, per esempio. Già oggi vediamo crescere l’offerta sul mercato di prodotti sostitutivi della carne, dei latticini e persino dei pesci. Significa che c’è domanda, che i cittadini più ricchi del mondo, quelli che inquinano di più, stanno acquisendo consapevolezza. Ma non basta. Ci vorrà presto anche uno sciopero dell’hamburger!