
Il tè metafora della vita in Jaima
Ci sono luoghi del mondo dove non andremo probabilmente mai, ma che solo il cinema ci può far conoscere. Sono luoghi selvaggi, dove la modernità si alimenta ed esonda inarrestabile. Il Locarno Film Festival ce ne fa scoprire tre nel Sahara, in Cile e in India. Il cortometraggio Jaima (Svizzera, Pardi di domani) diretto da Francesco Pereira ci porta tra le dune del Sahara Occidentale conteso tra il Marocco e Fronte Polisario fin dal 1976. Jaima è la tenda della popolazione locale Saharawi, perseguitata. Una donna ci introduce al passato e al presente della storia del suo popolo. E lo fa offrendo tre tè. Il primo è amaro come la vita. «Che mondo è quello che lascia le persone senza un tetto e dove si uccidono i bambini?», si chiede. Il secondo è dolce «come l’amore, come le buone relazioni e le cose belle della vita, che però durano poco», spiega.
Il terzo è delicato «come la morte, la fine di un ciclo», conclude. Ad accompagnare il tè immagini di vita della popolazione Saharawi tra baracche in lamiera, tralicci e qualche sprazzo di modernità. Quella stessa modernità, che ritroviamo rottamata e inquinante su un tratto di costa deserta del Cile settentrionale nel film Les Premiers Jour di Stephane Breton (Francia), che ha aperto La Settimana della Critica.

Vita tra i rottami in Les Premiers Jours
Questa spiaggia è un cimitero di auto, bottiglie di plastica e ossa di animali, ma è anche uno straordinario giacimento di alghe. A raccoglierle, instancabili, sono un manipolo di uomini, dai quali per tutto il film non percepiamo una parola. Una scelta precisa del regista, che ha privilegiato i rumori di fondo e le immagini, che coinvolgono lo spettatore senza soluzione di continuità. Questi uomini sembrano felici della loro vita in un ambiente naturale violato e contaminato. Si accontentano di poco, ma si sentono liberi come i cani che li accompagnano. Forse per questo non si avverte angoscia, una sensazione che ci trasmette invece l’indiano Shiva protagonista di Whispers of Fire&Water (India, Cineasti del Presente) diretto da Lubdhak Chatterjee.
Creare installazioni sonore per gallerie d’arte, è questa la missione dell’artista Shiva, che si avventura armato di registratore nell’est del suo paese. Qui ci sono degli enormi giacimenti di carbone, la varietà di suoni è molto ricca e sembra fare proprio il caso di Shiva. Ma le sue passeggiate in un India a lui sconosciuta spostano in breve il suo interesse. I fumi tossici emessi dai fuochi sul terreno avvelenano tutto: suolo, animali, minatori. La vita urbana elettrificata paga qui un prezzo molto alto. La prospettiva di Shiva sta cambiando e lui si sposta allora in un villaggio tribale. Qui riceve lezioni di vita dagli abitanti del posto. «Scuola, elettricità, strade sono essenziali, ma è giusto lasciare la nostra casa per questo? In città si pensa solo al lavoro» gli argomenta un abitante del villaggio, che poi aggiunge: «Un giorno arrivò l’elettricità nel villaggio.

Shiva registra i sussurri di un territorio sofferente in Whispers of fire and water
Eravamo felici, ma questa felicità durò poco. La corrente elettrica era appena sufficiente per tenere accesa una lampadina, che attirava una miriade di insetti. Col fuoco avevamo prima la stessa luce e nessun insetto. Sarebbe un progresso?». Non c’è risposta, ma il microfono peloso di Shiva continua a registrare fino a quando vicino all’acqua che scorre, prima pulita e poi sporca, recupera in parte la dimensione della natura, che andava cercando per i suoi progetti artistici.






