The Vegetarian Chance

So I am living without fats, without meat, without fish, but am feeling quite well this way. It always seems to me that man was not born to be a carnivore."(Albert Einstein) August 3, 1953


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Sahara, Cile e India: viaggi nella natura violata al Locarno Film Festival

Il tè metafora della vita in Jaima

Ci sono luoghi del mondo dove non andremo probabilmente mai, ma che solo il cinema ci può far conoscere. Sono luoghi selvaggi, dove la modernità si alimenta ed esonda inarrestabile. Il Locarno Film Festival ce ne fa scoprire tre nel Sahara, in Cile e in India. Il cortometraggio Jaima (Svizzera, Pardi di domani) diretto da Francesco Pereira ci porta tra le dune del Sahara Occidentale conteso tra il Marocco e Fronte Polisario fin dal 1976. Jaima è la tenda della popolazione locale Saharawi, perseguitata. Una donna ci introduce al passato e al presente della storia del suo popolo. E lo fa offrendo tre tèIl primo è amaro come la vita. «Che mondo è quello che lascia le persone senza un tetto e dove si uccidono i bambini?», si chiede. Il secondo è dolce «come l’amore, come le buone relazioni e le cose belle della vita, che però durano poco», spiega.
Il terzo è delicato «come la morte, la fine di un ciclo», conclude. Ad accompagnare il tè immagini di vita della popolazione Saharawi tra baracche in lamiera, tralicci e qualche sprazzo di modernità. Quella stessa modernità, che ritroviamo rottamata e inquinante su un tratto di costa deserta del Cile settentrionale nel film Les Premiers Jour di Stephane Breton (Francia), che ha aperto La Settimana della Critica.

Vita tra i rottami in Les Premiers Jours

Questa spiaggia è un cimitero di auto, bottiglie di plastica e ossa di animali, ma è anche uno straordinario giacimento di alghe. A raccoglierle, instancabili, sono un manipolo di uomini, dai quali per tutto il film non percepiamo una parola. Una scelta precisa del regista, che ha privilegiato i rumori di fondo e le immagini, che coinvolgono lo spettatore senza soluzione di continuità. Questi uomini sembrano felici della loro vita in un ambiente naturale violato e contaminato. Si accontentano di poco, ma si sentono liberi come i cani che li accompagnano. Forse per questo non si avverte angoscia, una sensazione che ci trasmette invece l’indiano Shiva protagonista di Whispers of Fire&Water (India, Cineasti del Presente) diretto da Lubdhak Chatterjee.
Creare installazioni sonore per gallerie d’arte, è questa la missione dell’artista Shiva, che si avventura armato di registratore nell’est del suo paese. Qui ci sono degli enormi giacimenti di carbone, la varietà di suoni è molto ricca e sembra fare proprio il caso di Shiva. Ma le sue passeggiate in un India a lui sconosciuta spostano in breve il suo interesse. I fumi tossici emessi dai fuochi sul terreno avvelenano tutto: suolo, animali, minatori. La vita urbana elettrificata paga qui un prezzo molto alto. La prospettiva di Shiva sta cambiando e lui si sposta allora in un villaggio tribale. Qui riceve lezioni di vita dagli abitanti del posto. «Scuola, elettricità, strade sono essenziali, ma è giusto lasciare la nostra casa per questo? In città si pensa solo al lavoro» gli argomenta un abitante del villaggio, che poi aggiunge: «Un giorno arrivò l’elettricità nel villaggio.

Shiva registra i sussurri di un territorio sofferente in Whispers of fire and water

Eravamo felici, ma questa felicità durò poco. La corrente elettrica era appena sufficiente per tenere accesa una lampadina, che attirava una miriade di insetti. Col fuoco avevamo prima la stessa luce e nessun insetto. Sarebbe un progresso?». Non c’è risposta, ma il microfono peloso di Shiva continua a registrare fino a quando vicino all’acqua che scorre, prima pulita e poi sporca, recupera in parte la dimensione della natura, che andava cercando per i suoi progetti artistici.

 


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Città o campagna? Due film al Locarno Film Festival

La voie royale Sophie sotto esame al Politecnico

Il dualismo tra città e campagna esiste fin dai tempi di Esopo, che ben lo rappresentò in una sua favola. Gli ultimi cent’anni ci danno vincente la città sulla campagna. E’ il luogo dove si consuma, dove gli esseri umani interagiscono più intensamente e in molteplici forme: culturali, commerciali, alimentari, sessuali. Da quando, però, l’inquinamento, stress e malattie contagiose spaventano di più si avverte una controtendenza in favore della campagna. Due film presentati al Locarno Film Festival in sezioni differenti ben rappresentano l’antico dualismo e la sua problematicità. In La voie royale (sezione Piazza Grande) del regista svizzero Frédéric Mermoud una ragazza di campagna, Sophie, insegue a Lione il sogno di iscriversi al prestigioso Politecnico locale. Dietro ha una famiglia di piccoli allevatori di maiali schiacciati dall’industria agroalimentare, davanti ha invece un ambiente ostile e classista dove tutti sgomitano per arrivare al successo. In entrambe le situazioni la lotta è impari sia per Sophie che per la sua famiglia. Gli avversari sono crudeli, indirizzati al profitto e al dominio. La protagonista ne è via sempre più consapevole tanto da avere la forza di dichiarare il suo «manifesto» davanti al suo esaminatore. «Questo mondo indirizzato solo al profitto va cambiato. Io voglio farlo dal suo interno», dice. E proprio lì tra i maiali di famiglia Sophie riceve la notizia della sua ammissione al Politecnico. Padre e fratello l’abbracciano: sembrano aver anche loro capito che il mondo deve cambiare direzione. «Soldi o potere. Per cosa sei qui?» Le chiede una collega il primo giorno di università. «C’è anche altro» risponde Sophie interpretata con credibilità dall’attrice Suzanne Jouannet. Dalla campagna alla città arriva energia positiva per gli umani e speriamo poi magari anche per i maiali.

Franck esausto ai piedi del suo trattore consolato da una mucca

A compiere un percorso inverso a quello di Sophie è il parigino Franck, ricercatore, in 5 Hectares (sezione Fuori concorso) della regista francese Émilie Deleuze. Franck lascia agio, carriera e relazioni per comprarsi cinque ettari di terra in campagna nel Limousin, il minimo per poter ottenere lo status di agricoltore e non caricarsi di un impegno produttivo troppo gravoso. Il trasferimento, come è facile attendersi, non è agevole. Franck non sa come cominciare e scopre che l’ambiente che lo circonda è ostico. Abbiamo la conferma che tra villici e cittadini esiste un’organica e diffusa diffidenza. Se il cittadino vuole da una parte riaffermare la sua «civiltà» attraverso educazione, ma anche fermezza e risolutezza, dall’altra il villico non ama gli intrusi che attentano al suo stile di vita. Così il cittadino Franck litiga da subito con un agricoltore che vuole far pascolare gli animali nel suo terreno e dall’altro poi trova in un agognato trattore lo status symbol che ne dovrebbe consacrare l’integrazione nell’ambiente. Ma pagare non basta per «meritarsi» la terra. Nulla riesce troppo bene a Franck, in crisi anche con la moglie hostess, ma il suo anelito di libertà dalle costrizioni della città lo esalta fino ad esagerare nei comportamenti che gli rivelano istinti a lungo repressi come rabbia, invidia e irrefrenabile passione. Quest’ultima alla fine prevale e Franck trova la sua dimensione ai piedi del suo sgangherato trattore. La campagna ottiene la sua rivincita.


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Camera con vista sui rifiuti. A un doc austriaco il Pardo verde WWF del Locarno Film Festival

Una collina verde e una di rifiuti nel Sud est Asiatico

Tutti i giorni ciascuno di noi ingaggia una lotta con i rifiuti che produce. Il guaio è che questa nostra produzione di rifiuti è sempre più consistente e soprattutto rapida. Un sacchetto può rimanere tra le nostre mani pochi minuti, e così il cibo, che non mangiamo. Più tempo durano i vestiti e gli apparecchi elettronici, ma il nostro desiderio di sostituirli in fretta è quasi spasmodico. Ma tutti questi rifiuti dove finiscono e chi se ne occupa? Non ce lo domandiamo abbastanza ed è proprio per questo che il documentario Matter Out of Place ci dà una risposta cruda, senza scrupoli e a tratti ironica. Il documentario, diretto dal regista austriaco Nikolaus Geyrhalter, è stato presentato al concorso internazionale del 75 Locarno Film Festival e ha vinto il Pardo Verde WWF istituito quest’anno per la prima volta.

Il regista austriaco Nikolaus Geyrhalter riceve il Pardo Verde Ti-Press / Massimo Pedrazzini

Con le sue immagini senza commento Geyrhalter ci guida in un viaggio sul destino dei rifiuti nel mondo: dai luoghi più «idilliaci» come le Maldive e una stazione sciistica svizzera fino al Sudest asiatico dove le montagne di rifiuti accumulate fanno parte del paesaggio. In altezza rivaleggiano con le colline circostanti. E dagli odori che dispensano nell’atmosfera da spettatori siamo, per fortuna, dispensati. Nel resort di lusso ai tropici alla vista dei turisti invece dei pesci emergono dall’acqua ovunque oggetti in plastica. In Svizzera sanno proteggere le loro montagne molto amate dagli sciatori, ma per farlo devono far scendere a valle camion appesi alla funivia.

Nel Vallese in Svizzera una funivia porta a valla un camion di rifiuti

E alla fine eliminare tutto questo pattume sembra impossibile. Ne produciamo più di quanto riusciamo a smaltirne. Ce lo dimostra Geyrhalter quando ci fa incontrare gli oscuri protagonisti dello smaltimento: quelli che bruciano o seppelliscono e quindi inquinano e quelli che raccolgono, per lo più volontari, che credono nel riciclo. Proprio questa soluzione, secondo il regista, non è poi così risolutiva come ci illudiamo. «Per riciclare consumiamo molta energia e produciamo di fatto nuova materia da usare e riciclare», ha detto rispondendo a una mia domanda sul riciclo in un incontro col pubblico. «Non sta a me proporre soluzioni. Io faccio il regista e racconto un problema con le mie immagini. Poi sta ad altri trarre delle conclusioni sull’impatto della nostra esistenza su questo Pianeta». Il pensiero del regista traspare anche dal titolo Matter Out of Place, che come spiega in una didascalia significa: «qualunque oggetto o impatto che non è naturalmente parte dell’ambiente immediato». Nikolaus Geyrhalter è da sempre impegnato sul fronte ambientale e questo film completa una sua trilogia composta anche da Unser täglich Brot, 2005 sulle ipocrisie delle industrie alimentari e da Earth, 2019, che raccontava le devastazioni provocate dalle miniere a cielo aperto.

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Gabriele Eschenazi