Anthony Bourdain ha saputo raccontare il mondo dei cuochi e poi delle cucine del mondo come pochi. Il suo stile narrativo, prima nel celebre libro Kitchen confidential e poi nei suoi programmi tv come No reservation è stato asciutto, diretto, sincero. Ha dato un immagine del cuoco e dei ristoranti tutt’altro che rassicurante, ma ci ha anche incoraggiato a non aver paura del cibo e a considerarlo divertimento, cultura, libertà. Non poteva amare i vegetariani e tanto meno i vegani che dal cibo e da chi lo cucina pretendono qualità etiche, ambientaliste e salutiste. Lui non accettava limiti e divieti, nemmeno quelli che gli potevano derivare dalle origini ebraiche di sua madre, Gladys Sacksman. Questo suo naturale atteggiamento trasgressivo poteva sembrare irritante in quanto indifferente ai destini del persone e del mondo. In realtà poi guardando ancora oggi i suoi programmi si può intuire che non era esattamente come sembrava.

La nostra immagine preferita di Anthony Bourdain diffusa sul suo profilo Twitter
Quel suo approccio anticonformista gli consentiva di avvicinarsi alle persone, metterle a suo agio e raccontare a noi spettatori realtà nuove. Non diceva mai di no ad ogni assaggio, anche di cibo chiaramente scadente. E chissà se poi lo mangiava davvero o invece non lo rigettava al termine delle riprese. Lo si vedeva contorcersi sul letto d’albergo vittima di dolori di pancia e recitava la sua parte fino in fondo. Di fatto il messaggio era chiaro. Sembrava volerci dire: «Mangiate sempre tutto anche a costo di soffrire un po’…..». Ai vegetariani aveva detto: «Ammiro i vegetariani, che a casa loro rifiutano di mangiare nient’altro che vegetali, ma ammiro anche chi mette da parte questi principi o queste preferenze quando viaggia. Anche solo per essere un buon ospite». Era un esploratore di cibo e ci raccontava esperienze molto lontane da chi ha scelto l’alimentazione a base vegetale, ma il suo lavoro di documentazione e interpretazione è stato prezioso. Il suo sorriso così come i suoi sguardi malinconici ci mancheranno.
Pietro Leemann lo ricorda così, da cuoco a cuoco:
Qualche settimana fa Anthony Bourdain ha scelto di lasciare in modo drammatico questa dimensione.
Era un cuoco eclettico, in gioventù aveva lavorato in ristoranti di buon livello americani, al contempo sapeva scrivere molto bene, amava raccontare il suo mondo, quello della cucina, da dietro le quinte. È diventato famoso a livello planetario, ancor più che per i suoi piatti, grazie al libro Kitchen Confidential che, in occasione della sua uscita in Italia, ho avuto l’onore di presentare alla Feltrinelli di Milano. Leggetelo se non l’avete ancora fatto, lo stile è contemporaneo e secondo me ha contribuito non poco a rendere fascinoso, nel bene e nel male, il mestiere del cuoco e tutto quanto gli ruota attorno. Nel suo dire e agire era sincero, volentieri prendeva posizione per difendere diritti, dalla sovranità alimentare, al cibo per tutti, al mondo femminile troppe volte preda di un certo mondo maschile. Molto belli i suoi documentari in giro per il mondo, con le sue interviste dava parola a tutti, dai cuochi di ristoranti pluristellati, a quelli spesso molto coloriti che preparano il cibo da strada. Nel libro descrive l’ambiente di certe cucine dal punto di vista di chi ci lavora, molte volte paragonabili secondo me, per tutto quanto succede al loro interno, al purgatorio. Avete visto, Il cuoco, il ladro la moglie e il suo amante di Peter Greenaway? Rende molto bene l’idea. Un ambiente, quello da lui descritto fatto, oltre che di piatti preparati in varia forma e spesso con poca etica, anche di sesso, droga e rock and roll. Realtà delle quali ho solo avuto eco ma che non sono mai entrate a far parte delle mie scelte lavorative. Sotto altri aspetti in passato ho vissuto, però, esperienze ancora più forti per intensità da quelle da lui descritte; ricordo la fatica di alzarmi la mattina per entrare in quelle cucine, dove l’asticella della qualità era posta molto in alto e il sacrificio per raggiungerla implicava punizioni esemplari a ogni minimo errore commesso. Quella pressione psicologica ha inciso per molto tempo sul mio stato fisico e mentale ed è stato determinante in molte mie scelte lavorative e della sfera privata. In quei luoghi si viveva una sorta di ascetismo, l’ideale da difendere ad ogni costo era l’alta nomea del ristorante, al quale in tutto e per tutto noi cuochi eravamo fieri di appartenere. In quegli anni sono stato formato, anzi forgiato, ho imparato a lavorare e soprattutto a non sbagliare, nonostante le molte difficoltà che ogni giorno mi si paravano davanti, da allora nessun ambiente di cucina mi ha fatto più paura. A un certo punto quell’intensità estrema è in me persino diventata uno stile di vita, mi sentivo fiero dei miei raggiungimenti, sempre pronto a conquistare il mondo a qualunque costo. Dentro però solo a tratti mi sentivo nella mia pelle, spesso ho rasentato l’alienazione, più volte toccato il fondo del pozzo dal quale per Grazia sono ogni volta riemerso. Un saliscendi vorticoso, una trappola, probabilmente specchio di un certo stile di vita, non solo di colleghi ma di una buona fetta della società dell’ultimo trentennio.
Uscito dalla più grandiosa di queste esperienze, mi ero convinto che la sofferenza fosse l’unico strumento per poter essere migliore, nella professione e nella vita. Mi ero invaghito del modello del superuomo che attraverso una disciplina ferrea, attraversando difficoltà sempre più grandi, si tempra e si trasforma diventando una sorta di semidio senza limiti e capace di tutto. Dopo quel sommo periodo con Fredy Girardet, sono entrato a far parte della brigata del “Ristorante” in via Bonvesin de la Riva. Avevo 23 anni e mi sembrava di riuscire a dialogare con Marchesi, non alla pari perché bisogna dare a Cesare quel che è di Cesare, ma capendo molto di più di cucina dei miei coetanei.
Correvo veloce, pensavo veloce, recepivo veloce, cucinavo preciso e veloce e quello stile di vita mi aveva preso a tal punto che mi sembrava persino di essere felice. Ero stimato e gratificato, grazie a quell’attitudine ho conosciuto il gotha delle persone che avrebbero rivoluzionato il mondo del cibo e nel mio piccolo mi sono sentito protagonista in un momento storico sotto molti aspetti rivoluzionario. Avrei potuto continuare in quel modo, Marchesi mi fece una bellissima proposta ma decisi, come qualche anno prima feci con Angelo Conti Rossini, di non cogliere nemmeno quella rosa. In quel vivere un aspetto importante non mi corrispondeva, in quel mondo il fare era più importante dell’essere. O meglio il fare era agito senza considerare il senso dell’essere. Se ogni giorno non avevo una conquista mi sentivo un derelitto, se l’adrenalina si affievoliva mi sembrava che tutto fosse perduto. Cosi sono partito, come avrebbe detto Jung, alla ricerca del Se che, dopo molti viaggi fuori e dentro ho appreso, è l’indispensabile punto di partenza per trovare la pace. Anthony non so, le sue osservazioni erano lucide e persino graffianti, secondo me ci vedeva molto bene. Chissà fino a che punto leggeva se stesso. Il mondo da lui abilmente raccontato è dal mio punto di vista interessante solo se dà libertà a chi lo frequenta.
Per libertà intendo essere protagonisti delle proprie scelte e non subirle, per scegliere è fondamentale conoscere che cosa è meglio per noi e per gli altri, e conoscersi.
Caro Anthony, oltre ogni mia possibile speculazione e me ne scuso, ti auguro un bellissimo viaggio.
Cordiali saluti.
Pietro Leemann