
Il professor Fausto Gusmeroli presenta il suo libro Ridiventare primitivi a TVC 2019 da EDIT a Torino lo scorso 11 ottobre
Dare del “primitivo” a una persona è generalmente considerata un epiteto più o meno bonario per definire una persona poco evoluta e poco educata. Si tratta in realtà di un errore dettato dall’ignoranza e dallo stereotipo che abbiamo sui nostri antenati. Conoscerne meglio abitudini, etica e principi ci può sorprendere e insegnare molto per la realtà, che viviamo oggi. A colmare questa lacuna nelle nostre conoscenze provvede il libro Ridiventare primitivi (Aracne editrice, 9 euro, 84 p) del professor Fausto Gusmeroli, ricercatore presso la Fondazione Fojanini di Studi Superiori di Sondrio e docente in Ecologia agraria presso l’Università degli Studi di Milano. Gusmeroli ha presentato il suo libro all’ultima edizione del Festival The Vegetarian Chance a Torino l’11 ottobre. Il suo racconto scientifico è appassionante e riesce a creare un’inaspettato filo conduttore tra una civiltà priva di tecnologia e un’altra invece da essa dominata. Gusmeroli non crea contrapposizione tra due epoche molto diverse, ma piuttosto ci ricorda che tecnologia o meno le nostre necessità interiori sono rimaste le stesse. Esiste come allora per noi esseri umani, animali sociali, l’urgenza di trovare un equilibrio nella convivenza recuperando principi, che abbiamo trascurato come solidarietà, uguaglianza, libertà e democrazia. “Lo sviluppo tecnologico porta l’illusione dell’affrancamento da ogni costrizione e l’impronta ecologica cresce a dismisura, ben oltre le possibilità del pianeta, generando gravissimi dissesti ambientali e non meno drammatici squilibri sociali” dice Gusmeroli. “La catastrofe globale può essere evitata solo con una nuova rivoluzione, che recuperi la saggezza ecologica dei popoli primitivi e ritorni a far sognare l’umanità, attirandola verso la bellezza e la compassione”.
Di seguito un brano tratto dal libro di Fausto Gusmeroli. Significativo è il passaggio nel quale si racconta che l’uomo primitivo contrastava la malattie infettive evitando di disturbare l’ambiente biotico. Non è probabilmente solo il vaccino l’antidoto alla pandemia che stiamo vivendo.
In ascolto dei primitivi
La sola opzione davvero risolutiva ai drammatici problemi di oggi passa attraverso paradigmi di sostenibilità molto forte e un’ecologia profonda, ecocentrica, in grado di riconoscere l’intelligenza della natura e imparare da essa, dove l’empatia ha il primato sull’aggressività, dove l’uomo sa vedersi inscindibilmente connesso alle reti ecologiche della vita. È proprio l’immaginario dei primitivi. La nostra conoscenza della civiltà dei cacciatori-raccoglitori si basa su reperti archeologici, testimonianze storiche di esploratori e missionari e soprattutto sull’osservazione diretta di comunità che non si sono evolute, che sono rimaste in ogni aspetto del loro vivere all’epoca del Paleolitico o se ne sono distaccate in tempi molto recenti. L’incontro forse più inatteso ed emozionante dell’uomo moderno con queste popolazioni tribali avvenne nel 1931, quando sugli altipiani della Nuova Guinea venne “scoperto” un milione di persone rimaste all’età della pietra, di cui non si sapeva l’esistenza. Dietro l’impressionante varietà di forme culturali prodotte dall’adattamento a luoghi molto eterogenei per condizioni geografiche, in mancanza di tecnologie che permettessero d’intervenire pesantemente sull’ambiente, gli antropologi evidenziano numerosi tratti comuni a questi popoli, sorprendenti se si pensa all’isolamento nel quale erano relegati. Di essi se ne fa una rassegna molto puntuale in vari articoli apparsi in The Ecologist, la rivista fondata da Edward Goldsmith, grande appassionato di culture indigene. Un primo elemento comune era la relativa assenza d’istituzioni governative. Piuttosto rara era la presenza di re, capi o altre figure o organismi formali di potere. I rapporti sociali erano regolati da consuetudini e costumi interpretati e custoditi dagli anziani, talvolta riuniti in un consiglio. A garantire l’ordine bastavano una rigorosa disciplina e una rigida adesione al codice etico della tribù. La pressione sociale, gli interventi degli anziani e la paura di recare torto agli spiriti dei morti erano più efficaci di qualsiasi coercizione. La comunità era un’entità naturale alla quale tutti contribuivano, un sistema integrato auto-organizzante orientato alla stabilità, non immobile ma aperto a un’evoluzione nella continuità e nell’equilibrio. Una società che, attingendo al lessico dell’ecologia vegetale, si potrebbe qualificare climax, ossia omeostatica e resiliente, in armonia con il proprio habitat. Una caratteristica contigua era l’equità. Nessun’altra società umana ha saputo riproporre quei livelli di uguaglianza, di libertà e democrazia. Non vi erano classi sociali e non vi era proprietà. Tutti i membri avevano gli stessi diritti e doveri, condividevano i beni e ogni momento della vita, pur nell’ambito di una divisione di compiti tra i generi. Coloro che esercitavano una qualche autorità beneficiavano di pochissimi privilegi, come poter scegliere per primi la parte di carne da consumare dopo una battuta di caccia. Il dono era la forma abituale di scambio, che fondava e rinsaldava i legami sociali . La qualità della vita era incredibilmente elevata. Non esisteva il lavoro, a meno di considerare tale l’attività produttiva necessaria alla sopravvivenza, ma allora occorrerebbe ammettere che anche gli animali lavorano. Quest’attività occupava non più due-tre ore giornaliere ed erano più i giorni di riposo di quelli attivi. Il moltissimo tempo libero era dedicato alle relazioni, a ricevere ospiti, flirtare, danzare, cantare, giocare, fare festa, teatro, narrare i grandi miti e partecipare a riti. L’alimentazione era assolutamente adeguata, in quantità e qualità, e il cibo era sempre fresco e incontaminato. Da uno studio citato da Harris in Cannibali e re, condotto da J. L. Angel su resti scheletrici, risulta che trentamila anni fa la statura media nell’uomo fosse di 177 cm e nella donna di 165, superiori a quelle attuali. Quei nostri antenati erano miti e intelligenti e godevano di un eccellente stato di salute fisica e mentale. La malattia, non diversamente da ogni discontinuità, come siccità e alluvioni, era vista come sintomo di disadattamento sociale ed ecologico e per contrastarle si agiva su questi aspetti. Le parassitosi erano attenuate dal nomadismo e da una densità di popolazione molto bassa; le malattie infettive e di altro genere evitando di disturbare l’ambiente biotico. Si pagava alla selezione naturale il prezzo di un’elevata mortalità infantile ma, superata la soglia d’età dei dieci anni, si viveva a lungo, morendo in prossimità degli ottant’anni. Alla luce di moltissime evidenze sperimentali che attestano il legame tra mente e materia, riconducendolo a meccanismi quantistici, non si può escludere che l’ottimo stato di salute fosse dovuto anche alla coesione e unità d’intenti della comunità . Essendo nomadi e avendo grande rispetto per la natura vivevano dell’essenziale e non accumulavano. Volutamente non producevano al massimo possibile, guardandosi dallo sfruttare appieno i mezzi tecnici e le materie prime naturali. Evitavano così d’incrementare la popolazione fino alla saturazione della capacità portante, una scelta dettata verosimilmente anche dal non voler appesantire il carico di attività produttiva, come attestato da talune tribù contemporanee che si rifiutano di diventare agricoltori per non dover sacrificare del tempo libero. Per contenere la densità demografica praticavano l’infanticidio, basato più sull’incuria che la soppressione diretta, e le madri allattavano a lungo i pargoli, mentre erano sporadici il geronticidio e le pratiche abortive.

Foto di OpenClipart-Vectors da Pixabay
Il non accumulare trovava anche ragione in un atteggiamento spontaneamente ottimista e nella sicurezza costituita dalle relazioni sociali. Egualitarismo, assenza di proprietà e di accumulo rendevano inconcepibile l’idea stessa di povertà. Al più si poteva assimilare al povero chi restava orfano, ossia privo di sostegno sociale, situazione che per altro era assorbita dentro la solidarietà comunitaria. Di converso, la ricchezza poteva identificarsi nelle tante e forti relazioni. Altra peculiarità era il legame con i luoghi. Gli indigeni ritenevano di appartenere a un luogo, non che il luogo appartenesse loro. Si percepivano parte inscindibile dell’habitat, come se la loro psiche non fosse separata dal mondo animale e vegetale. Non nutrivano alcun senso di superiorità o dominio sulla natura, un po’ forse la temevano, ma la rispettavano, la curavano, la amavano e sacralizzavano. L’identificazione con essa era tale che si chiedeva perdono e si ringraziava Dio per un animale abbattuto o si credeva che per ogni albero tagliato morisse una persona. Era convinzione che la natura offrisse tutto ciò che serve, sia in vita, sia dopo la morte, com’era credenza che i defunti rinascessero a un livello più alto, assumendo la forma di un essere umano, di un animale o di un albero, e continuando a nutrirsi. Così, la distruzione della natura toglieva sostentamento tanto ai vivi quanto ai defunti. Tutto in qualche modo era ricomposto dentro una cosmologia olistica, supportata da una mitologia che univa il passato, il presente e il futuro, il tempo e lo spazio. Sapevano ascoltare e lasciarsi educare dalla voce delle foreste, dei fiumi, delle montagne, degli animali e perfino delle stelle del firmamento. In tal senso si può dire che quei popoli fossero molto religiosi, laddove la parola “religione” significa legare (re-ligare), connettersi in modo mistico con il tutto. Nella loro visione animista, tutto era sacro e magico. I vegetali, gli animali e persino gli oggetti inanimati, come le rocce e i corsi d’acqua, erano considerati pervasi dagli spiriti. Ogni azione, inclusa l’attività produttiva, era un rituale, partecipava in qualche modo del sacro. Il profano era inconcepibile e l’attività produttiva era in definitiva fonte di soddisfazione, non meno delle attività ludiche.
Il libro della Genesi colloca il paradiso terrestre all’inizio della vicenda umana. Forse gli uomini del Paleolitico non sono vissuti nell’Eden: hanno praticato l’infanticidio, hanno sperimentato paure, controversie e contraddizioni, probabilmente erano troppo conservatori, però il loro modo di esistere corrispondeva in maniera esemplare ai loro bisogni ed era altamente adattativo. A loro non possiamo chiedere suggerimenti concreti per il presente, poiché il loro modello di vita era calibrato su una capacità portante del pianeta di pochi milioni d’individui, lo stato della biosfera non era quello di oggi e le tecnologie erano rudimentali. Da loro possiamo però apprendere quelle regole, quelle necessità interiori, quegli atteggiamenti psicologici universali che superano il tempo e lo spazio. Sono gli elementi che consentono di mantenere in equilibrio le relazioni sociali e i rapporti con l’ambiente circostante e qui non vi sono incertezze: quei nostri antenati hanno molto da insegnarci. Le loro società hanno saputo raggiungere un ineguagliato grado di stabilità nel loro ambiente naturale, nel quale sarebbero potute sopravvivere e prosperare indefinitamente senza il disturbo di altre culture e lo sviluppo delle tecnologie. Se esiste una possibilità di salvezza per l’umanità del terzo millennio, ebbene, questa passa da quell’antica saggezza.