Come sappiamo, orientarci verso la scelta di nutrirci a base di vegetali comporta un impegno e una consapevolezza profondi. Significa rivedere la nostra alimentazione quotidiana, rivisitare il nostro approccio ai prodotti alimentari che acquistiamo, selezionare i fornitori, rieducare il nostro palato, rimettere in discussione la nostra cultura gastronomica ereditata dalla famiglia e dal territorio. Non è facile e la prova sta nei diversi gradi di scelta definiti da inglesismi fantasiosi quali: flexitarian, fishtarian, vegetariano part-time. Sono tutte strade che producono un cambiamento testimoniato da una diminuzione sul mercato del consumo di prodotti animali. Per i “flessibili” l’acquisto del cibo è più semplice e consente anche un buon tasso di superficialità nel farsi abbagliare dalle scritte che compaiono con sempre maggiore frequenza sulle confezioni dei prodotti industriali, ma anche nei mercati. Tra queste: sostenibile, ecologico, rispetta l’ambiente, sano, leggero, ricco di fibre, povero di grassi, senza zuccheri aggiunti, alto oleico, senza antibiotici, senza conservanti e coloranti, OGM free, fonte di proteine, prodotto in Italia, 100% vegetale, per tutti, senza additivi, addensanti, stabilizzanti. Le scritte assolvono funzioni diverse: la prima è quella di farci preferire un prodotto a un altro, la seconda è quella di spingerci a focalizzare l’attenzione su un ingrediente specifico trascurandone altri, la terza, la più importante, è quella di farci evitare di leggere l’etichetta, un’operazione che richiede tempo, pazienza e un minimo di competenza. Nessuna scritta e nessun aggettivo adesso sembra però essere più valido dell’aggettivo “vegano”. Questo termine sembra racchiudere in sé per i consumatori tutte le qualità ricercate in un alimento. Vegano prende spesso il posto del termine “bio” che richiede impegno e costi molto maggiori e ha ovviamente un significato diverso da vegano, ma più garanzie per i consumatori. Senza entrare nel merito di marchi che si presentano come certificatori dovremmo evitare di farci suggestionare dai termini usati a vanvera senza certificazioni e andare a leggere l’etichetta per essere certi di non comprare cibo non sano o che può alterare la nostra percezione dei sapori. Per fare un esempio, all’ultima edizione di Milano Golosa ho acquistato da un produttore dei cantucci che recano la scritte: “senza burro”, “artigianali fatti a mano”, “farina integrale, mandorle”. Tutto vero: hanno olio evo al posto del burro, sono probabilmente fatti davvero a mano (non l’ho visto di persona) e contengono farina integrale. Peccato che all’assaggio si avverta un intenso e inaspettato sapore di mandorla. Da qui la mia domanda alla produttrice: «Avete aggiunto latte o farina di mandorla, aromi?». Risposta: «No, il sapore deriva da farina, mandorle e zucchero». Poi, però, nell’etichetta tra gli ingredienti sono indicati: “aromi, sorbato di potassio (fonte di possibili allergie, ipersensibilità)”. Dunque il sapore artificiale di mandorla dei cantucci deriva da indefiniti aromi. Non farsi sedurre dalle parole è davvero difficile e se a volte ci caschiamo non è un dramma, però riuscire a scegliere davvero quello che vogliamo e non quello che ci viene “venduto” può essere di supporto alle nostre convinzioni e aumentare la nostra fiducia nei produttori seri e coerenti.
01/11/2017 alle 14:33
😉👍
"Mi piace""Mi piace"